
Sapevo che era finita. L’avevo capito da come ci guadavamo, di come ci addormentavamo la sera, delle piccole abitudini che ognuno aveva e che non riuscivamo più a combaciare.
Eppure ci ho provato, facevo finta di poter andare avanti e di poter assomigliare alla perfezione che si aspettasse da me, dalle cose domestiche a quella lavorative.
C’ho provato.
C’ho provato così tanto da finire in analisi e prendere una dose, al momento, moderata di ansiolitici prima di coricarmi e delle pasticche per gli attacchi di panico, che funzionavano una volta su cento.
C’ ho provato così tanto che il pensiero prendeva il sopravvento sui miei gesti, portandomi in vicolo cieco in cui si respirava a fatica e avevo la sensazione di fumare un pacchetto sigarette al giorno.
C’ho provato.
Tanto.
E vorrei ancora provarci, ma sento che tutti i rami secchi stanno cadendo, denudandomi dell’aspetto più importante di tutto quella corsa: me stessa.
Mi ritrovavo sotto la doccia a pormi domandi, pensando che fossi sbagliata e che qualcosa non andasse in me, di non avere voglia di vestirmi perché dovevo sempre essere in orario, come se ogni cosa avesse una scadenza.
Mi sentivo uno yogurt dimenticato nel frigo, che a giorni sarebbe finito nella pattumiera.
Per anni ho pensato che fossi io la difettata.
Per anni ho amato qualcuno che mi faceva sentire un eterno errore.
Qualcuno che ho amato e amo ancora più di qualunque altra cosa, ma sono stanca, sono sul punto di rottura…
E nessuna posologia di gocce può aiutarmi.
Nessuna caramella al biancospino può allenire quella sensazione al petto.
Nessuna tisana alla canapa può donarmi un sonno tranquillo.
Nessuna seduta può far luce su ciò che è sempre stato evidente, ma tenuto a bada dall’incoscienza dell’amore.
Sì, credo che sia la definizione giusta: incoscienza.
“Melissia, non puoi continuare a fare sedute se ti ostini a bendarti per paura di vedere. Posso essere la torcia, me devi camminare tu lungo il sentiero. Uscire dalla tua cozione a ripetere, dove ti sei rifugiata appena ha capito. Perché tu lo sai, ma copri le prove per non affrontare ciò che ha difeso con te fin dal primo momento.
Io sono qui, ma devi esserci anche tu, altrimenti il mio lavoro è nullo” , mi disse, quel pomeriggio di fine maggio, quando la primavera cercava di resistere, divisa dall’inverno che voleva restare e l’estate che voleva prendere piede precocemente.
Mi sentivo come la primavera: stanca di restare.
Così presi le poche cose di cui avevo bisogno, lasciai profumo di pulito e la cena per la sera in frigo: un polpettone, facile da riscaldare. Non era il tipo che andava via senza un saluto, ma non avrei avuto il coraggio di andare via guardandolo negli occhi: mi sarei fermata.
Così, un bel giorno andai via, portandomi via tutta la imperfezione.
Gli stava facendo un regalo, dopotutto. Non avrebbe più trovato il dentifricio spremuto male – quando finivo il mio nel bagnetto in cui avevo le mie cose e sentivo mio – non avrebbe trovato il frigo le bottiglie chiuse male, i calzini dispari…. non avrebbe più avuto motivo di infastidirsi.
Ero lontana.
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