Aveva da sempre paura di andare al circo. Da bambina, mentre tutti i bambini si divertivano con i clown, lei piangeva: quello sguardo lo identificava come qualcosa di mostruoso, qualcosa che inquietasse invece di divertire.

Quel sorriso falso e rosso. Quegli occhi sinistri. Quei capelli che sembravano fili elettrici pronti a fulminarti senza pietà. Era diventato il mostro nero dei suoi incubi, quello che la violentava in una stanza bianca e nera di un manicomio. Quello che le chiedeva l’elemosina e poi finiva per mangiarle la sua mano facendo cadere i soldi nella saracinesca. Quello che le apriva la porta di fronte a un bivio di domande e poi la intrappolarla in esse. Quello che le chiedeva il pane e poi le strappava il cuore e lo divorava.

E ancora oggi, a ventiquattro anni suonati e portati con animo pesante e volto leggero, Zelda non riusciva a scrollarsi quell’inquietudine che si portava sulle spalle da ragazzina. Il clown era un appuntamento fisso della notte, come se si fosse invaghito di lei e la possedesse nei sogni tramite la sua mente. La sua presenza era costante della sua vita, facendo da padrone nei suoi incubi peggiori. Forse l’unica.

Nell’ultimo sogno, lei si trovava in un parco giochi e il clown era la giostra principale. Lei provava a scappare da lui ma la rincorreva senza riuscire a raggiungerla. Improvvisamente la strada giunse al termine e se voleva sfuggirgli doveva buttarsi nel vuoto. Chiuse gli occhi e senza pensarci si tuffò nell’aria. Si svegliò di colpo e bevve quasi metà bottiglietta d’acqua. Era sudata e sentiva caldo, anche se era pieno inverno e la neve era incessante. Aprì la finestra e respirò l’aria gelida per pochi secondi e richiuse. Si rimise a letto, ma il sonno era svanito. Si rialzò e andò in cucina con occhi lucidi e la bocca impasta di dentifricio e quello strano sapore che solo di notte abbiamo. Mise un pentolino colmo d’acqua sul fuoco e prese una tisana alla valeriana. Nell’attesa si fumò una sigaretta alla menta, e scoppiò in lacrime.

Era stufa di quella figura. Era stufa di sognare sempre lui anche se in sogni diversi. Doveva far qualcosa. Verso l’acqua calda e la miscela sprigionò un profumo rassicurante, buono, come quello di una mamma. Forse avrebbe dovuto contattare una specialista, come le ripeteva la sua amica Sara. Sì. L’avrebbe fatto.

Il giorno dopo era in sala d’attesa, e dopo un po’ venne il suo turno. Entrò e si accomodò dove la donna le indicò.
«Avanti, Zelda. Deve sentirsi libera di dire quello che vuole. Io non uso procedure, lascio al paziente di condurre la seduta» la sua voce accarezzò l’udito di Zelda e la rassicurò come il profumo della sua tisana. Sembrava quasi di sentirlo lo stesso profumo in quella stanza straniera con pochi mobili. Il lettino era comodo e soffice come lo sguardo della dottoressa che stava seduta, con gambe accavallate e un taccuino dove appuntare quello che avrebbe ascoltato. Era lì per lei. Aveva pagato qualcuno a cui affidare i suoi incubi come si paga una prostituta per soddisfare le perversioni più spregevoli. Iniziò a raccontare dall’inizio, compreso anche la sua immediata paura del clown da piccola. Non si soffermò solo sui dettagli, ma ci scovò dentro consumando le unghie e i polpastrelli. Andò fin dentro la radice dei dettagli. E da sole le risposte come peschi morti salivarono a galla, come vermi spuntarono da un frutto che sembra perfetto. I ricordi diventarono sempre più nitidi e il clown non aveva più la maschera. Il volto dietro la maschera era quello di Zelda. Si alzò di scatto e chiede un bicchier d’acqua. La dottoressa glielo diede e la invito a sedersi e se voleva a sdraiarsi di nuovo.
«Non è così terribile. Spesso il nostro io interiore, anzi sempre, si serve dei sogni e assume le sembianze di ciò che da piccola ci terrorizzava per avere la nostra attenzione. Si starò chiedendo perché non assume un bell’aspetto? Beh, la risposta è che un bel sogno non la metterebbe in allerta e, il suo io interiore sa che deve assumere lo stesso aspetto di ciò che la spaventa più di tutto. Negli incubi, spesso, siamo il carnefice di noi stessi. Questo avviene perché nel reale stiamo reprimendo qualcosa. Lei è sicura di vivere davvero a pieno?» le domandò con strana dolcezza. Per Zelda gli strizzacervelli erano senza sangue.
«Non mi mi pongo certe domande. La mattina mi alzo e vado a lavoro. Sono una grafica. Dopo il lavoro vado in palestra e poi torno a casa. Nel fine settimana esco con amici. La domenica vado a pranzo dai miei e porto i cioccolatini ai miei nipoti».
«Oltre a questo, c’è qualcosa che non riesce a vivere?».
Zelda non seppe rispondere, e scappò via dallo studio. Lasciò la somma esatta alla segretaria e non ritirò neppure la ricevuta. Non era pronta a scoprire altro. Era già troppo sapere il vero volto del clown. Ogni scoperta, ogni riposta avrebbe avuto il suo giorno. Per il momento bastava così.

© –lemienottibianche
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